Chips (no, non c'entra Poncharello)
Sento urlare allo scandalo piuttosto spesso, ultimamente, generalmente a torto, a volte a ragione. Ma in diverse occasioni mi piace allontanarmi dal merito della questione, per osservarne gli aspetti più squisitamente tecnici e meccanici, ove per meccanica intendo in questa accezione il come si sia arrivati a rendere un determinato sviluppo pressoché inevitabile.
Per passione seguo il settore del vino, ne leggo, lo assaggio, lo compro e soprattutto lo bevo, accompagnato spesso al cibo che meglio ne esalta il gusto. Spesso, a volte no, ma qui nessuno è un santo. Viaggiando parecchio ho anche la fortuna di assaggiare vini prodotti lontano, ben al di fuori della nostra vecchia Europa, con pratiche enologiche che – pur internazionalmente ammesse – a noi piccoli tradizionalisti fanno inorridire (in fondo siamo ancora quelli che se il tappo non è di sughero il vino non è buono, infelice confusione tra contenitore e contenuto di cui parlerò in un prossimo post).
Insomma, negli ultimi tempi sono tutti inorriditi di fronte alla barbara pratica di utilizzare i chips per dare ai vini il gusto barricato, invece della naturale stagionatura in barriques. Secondo il sottoscritto tale pratica equivale a fare il vino con le polverine, va però detto che noi (Europei) diamo al vino un valore storico e culturale che al di fuori del Vecchio Continente viene considerato quantomeno bizzarro. Per gli altri il vino è un prodotto puro e semplice, e allora perché non scegliere di posizionarsi ad un prezzo più basso sul mercato con una pratica innovativa?
Viene fatto da anni, da noi è stato sempre vietato, ora non lo sarà più, e tra pochi mesi anche in Europa (in Italia solo per i vini da tavola, esclusi quindi i VQPRD, ovvero DOC, DOCG etc) si potranno utilizzare pezzettini di legno senz’anima invece delle tanto maestose botti. Il Comitato di Gestione Vini ha ormai discusso gli ultimi aspetti, mancherebbe solo qualche rifinitura e l’ultimo accordo alla WTO, a Ginevra, e sarà (purtroppo) fatta.
Vorrei però, visto che la mia idea è già chiara, fare qualche considerazione generale:
1. Con questo accordo potremmo molto probabilmente aver salvato qualcuna delle nostre denominazioni Europee, fino ad ora beatamente usurpate alla faccia della proprietà intellettuale. Non ci si doveva forse attendere di dover cedere qualcosa in cambio?
2. Con il Regolamento CE 2165/2005 del 20 dicembre 2005 la pratica era già stata introdotta in via sperimentale (allegato, punto 2c). Un po’ telefonata come modifica dopo l’accordo del settembre di cui sopra, non sembra?
3. Il Codice Internazionale delle Pratiche Enologiche, nella sezione 3.5.12.2 (Utilisation de morceaux de bois de chêne dans l’élaboration des vins) ne ammette l’uso da un bel po’. Molto probabilmente pensavamo che il nostro divieto potesse andare avanti ancora parecchio, ma era davvero possibile vietare una pratica ammessa dall’Organizzazione Internazionale della Vigna e del Vino?
Conclusioni?
Smettiamola di pensare che le istituzioni internazionali non servano a nulla, smettiamola di mandare nelle diverse sedi (Parlamento Europeo in primis) chi non sappiamo come sistemare nel teatrino politico di casa nostra, invece delle persone giuste e competenti, smettiamola e cominciamo a lavorare seriamente, dove serve, quando serve.
Perché poi le norme internazionali tornano a bussarti all’uscio di casa, e sono cazzi amari.
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