Live from Beijing (2)
Andare a ballare a Pechino riserva simpatiche sorprese. Spieghi al buon tassista dove vuoi andare, accompagnato da un francese in condizioni alcoliche imbarazzanti già a mezzanotte, e – non ci crederete – il buon tassista ti porta esattamente dove volevi. Evidentemente non è di Pechino, ma di Poppi. Ripresoti dallo shock, scaricato il collega d’oltralpe e trascinatolo alla porta, paghi il terribile biglietto d’accesso (30 RMB, circa 3 €) e cerchi di capire da dove si entri. Perdi il francese, spinto dall’esperienza lo cerchi in bagno, et voilà le mec. Trovi l’entrata, lo spingi dentro ed è una bolgia infernale. Passano 10 secondi, la musica cambia e ti sparano una spaventosa versione techno-trance di Un’estate al mare a volume illegale, in italiano. E diventi Jerry Calà, dentro. Invece il francese diviene Jerry Calà, fuori.
Raggiunto il bancone la bolgia si infittisce. Non ho ancora ordinato che qualcuno mi spegne una sigaretta sul braccio. Chiaramente è il francese, che oscilla tremendamente e viste le condizioni ha già dato confidenza ad una notissima peripatetica sino-mongola. Ascolto per 5 minuti la pseudo-conversazione, in cui lei gli fa proposte chiare e dettagliate, e lui non capisce una parola. Poi lo trascino al secondo piano, dove dovrebbe esserci una saletta con musica meno assordante, per cercare di capire se è ancora in grado di parlare senza sbavare.
Trovo la sala, sento che in fondo parla ancora decentemente, e decido, con la collaborazione del barista, di stenderlo per farmi quattro risate. Io bevo fantastici shot di thé cinese, lui Chivas. Al quinto thé/Chivas, vado in bagno. Vista la bolgia ci metto 20 minuti, torno e lo trovo con in braccio una ragazza di Urumqi che sembra pericolosamente minorenne e sotto i flash delle psichedeliche assomiglia a mio zio, però khazako. Nel frattempo ordino una bottiglia di Moskovskaya (in Cina si pronuncia uodkà), la faccio pagare al francese con motivazioni stocastiche e lo libero dello zio di Urumqi, fra le sue proteste. Finita la uodkà, fatta chiusura, veniamo fisicamente scopati fuori dal locale, nel parcheggio c’è il solito mercato, fermiamo il più ubriaco che troviamo e gli chiediamo dove si può andare, è svedese, e lavora qui per un importante gruppo di cui non farò il nome, ci ferma un taxi, parla col tassista e ci spedisce verso una destinazione indefinita con un biascicato trust me!
Finiamo in una strada laterale a San Li Tun, in un locale conciato da ex fumeria d’oppio (l’ex è piuttosto eufemistico, anyway), ci informiamo a che ora chiudono, e ci dicono che non chiudono, ma che verso le 10 del mattino fanno pulizia e ci toccherà alzare i piedi mentre lavano i pavimenti. Il francese vacilla alla notizia, ma è ancora piuttosto in forma. Ci sediamo con un fotografo freelance statunitense ed un corrispondente di Le Monde, e finisce a tarallucci e vino. Solo che non essendovi i tarallucci, tocca farne a meno. Dannazione.
Alle 9.45 del mattino, dopo aver sottratto il francese ad un branco di laotiane di dubbissimi costumi cui lui aveva inopinatamente offerto da bere, ce ne andiamo, non prima di esserci seduti in un bar sulla strada (sulla cui igiene si potrebbe scrivere molto) a mangiare barbecue coreano. Per questa volta evito la zuppa di cane, non vorrei appesantirmi, ma il francese è senza ritegno e si mangia anche quella. Poi si addormenta in taxi. Arriviamo in albergo, il taxi si ferma e lui non si sveglia.
Resisto (a fatica) alla tentazione di dare al tassista 500 RMB e chiedergli di portare il francese cento chilometri fuori da Pechino, in campagna, e scaricarlo su una strada sterrata. Lo sveglio gridandogli alouette, gentil alouette nell’orecchio. Lobby, ascensore, chiave, letto. Svengo.
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